Tratto da una storia vera
Tratto da una storia vera
Tratto da una storia vera
È come se non riuscissi a chiudere gli occhi, abbassare le palpebre. Provare una sorta di paura e di perdita di controllo, vivere quel senso di smarrimento, non riuscire a ricordare o trattenere le ultime cose durante quella chiusura palpebrale. Il tentativo di prendere qualcosa che non si può mai più restituire oppure perdere qualcosa che non si può mai più riavere. Ritornare su questa linea di confine segnata dalla palpebra superiore con quella inferiore. Tutto trema, scatta una indecisione. Se tenereaperti o chiusi questi occhi? La tensione chiede se restare svegli o dormire. Vivere dentro una radura come dei rami piccoli, ammassati, molteplici, colorati, amputati, senza uno spazio visivo, ma confinati da un vuoto di una temperatura cromatica innaturale. Chiudere gli occhi ha lo stesso impulso nervoso di tenerli aperti. In questo scatto muscolare si generano stati di incoscienza e di coscienza come se fosse un respiro dentro un universo invisibile, dove si trova una difficoltà sostanziale nel prendere posizione, nel far crescere le proprie radici. Un luogo dove la vista non trova confine che possa aiutare lo stato contemplativo. Dove la condizione d’immanenza vive affianco ad un vuoto artificialmente indotto. Quindi la difficoltà diventa abitudine, diventa quotidiana. Ci si perde o ci si vuole perdere eludendo… Questi occhi ormai non guardano, ma sembrano quasi che ascoltano, senza vedere. Senza nessuna responsabilità. Sezionati, ordinati al proprio posto,comodo. Occhi rabdomanti, come se fossero dei rizomi che con le loro radici orizzontali (occidentali) cercano di vedere posti dove appoggiarsi. Cataste di rami come fasci di nervi, mossi da un mare umido e inconsistente. Emigrano duplicando la loro ombra che non combacerà
mai.